Testo critico | SOLILOQUIO

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“Pensò a quel silenzio perfetto. Anche adesso, come allora, nessuno sapeva dove lei si trovasse.
Anche questa volta non sarebbe arrivato nessuno. Ma lei non stava più aspettando. Sorrise verso il cielo terso.”
Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi

C’era una volta Alberto Giacometti: il volto scavato e scabro come la pelle delle sue sculture, lo sguardo profondo di chi sa arrivarti fin dentro l’anima. Aveva guardato negli occhi la devastazione della guerra, aveva visto il mondo precipitare tutto intero nell’abisso lasciato dai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki e aveva deciso di raccontare attraverso la sua arte quel che restava dell’uomo. E dell’uomo restava poco. Le sue figure appaiono estenuate, sofferenti, come mangiate da un morbo del quale non sia possibile trovare la cura. Poco importa se la loro scarnificazione sia un effetto del disastro nucleare (L’homme au doigt, record d’asta assoluto per quanto riguarda la scultura, è del 1947) o della consunzione dell’anima e della morale: l’uomo di Giacometti è l’umanità intera allo sbando, è il nostro Io sofferente, è la croce invisibile sulle nostre spalle. Se la figura umana è dalla notte dei tempi il cuore della ricerca artistica, è toccato all’arte contemporanea andare a rintracciare lo spirito attraverso il corpo per farvelo trasparire come forma. Non appena le avanguardie hanno spezzato la tradizione, spalancando nuove possibilità, la scultura si è avventurata su nuove strade, semplificandosi fino alla serica geometria di Brâncuși, alleggerendosi nei voli colorati di Calder o smaterializzandosi nel grido disperato di Giacometti.  Secolo di introspezione – non a caso tenuto a battesimo da Sigmund Freud – il Novecento con le sue guerre devastanti e la sua inimmaginabile evoluzione tecnologica ha costretto l’uomo a guardarsi dentro come mai aveva fatto prima. E l’arte è stata il mezzo privilegiato. Saliti sulle spalle dei grandi maestri, autori come Tony Cragg, Juan Muñoz o Antony Gormley hanno proseguito quelle ricerche, ritrovando nei materiali del contemporaneo un nuovo mezzo per andare a indagare l’uomo, le sue inquietudini, i suoi abissi interiori. E la sua incolmabile solitudine.

Johannes Nielsen, Same Body Different Day #5, bronzo, 75 x 12 x 12 cm
Johannes Nielsen, Same Body Different Day #5, bronzo, 75 x 12 x 12 cm

Johannes Nielsen si inserisce in questo filone ricchissimo, e se con Giacometti condivide il bisogno di arrivare all’essenza, a Gormley lo accomuna il gusto per una scultura iconica, dove le superfici e i volumi si fanno voce di un’interiorità complessa. Penso a installazioni come la teatrale Another place, sul lungomare di Liverpool: cento figure sparse per tre chilometri di costa (e installate in mare fino a un chilometro dalla riva) che guardano l’orizzonte. Penso a Another time, diritta in piedi in cima a un edificio londinese come se fosse in procinto di lasciarsi cadere. O di spiccare il volo. Ecco, forse il sentimento che più strettamente avvicina questo grandissimo della scultura contemporanea alla poetica potente – e tuttavia sussurrata – di Johannes Nielsen è la capacità di lasciarci spiazzati, in bilico tra una sensazione di malinconia disperata e una sensazione di euforico ottimismo. Se i suoi cavalli leggeri, danzanti, sono un inno alla bellezza selvaggia della natura (e quasi un omaggio a Marino Marini), quando entra in gioco l’uomo il discorso si fa più articolato. La posa ginnica, tesa, è al tempo stesso balzo fisico ed elevazione spirituale, ma la testa ripiegata in avanti, le braccia spalancate come in segno di resa, sembrano prodromici a un sacrificio. L’evoluzione degli ultimi lavori, poi, pare proprio condurre questo artista giovane e tuttavia già molto strutturato verso una direzione sempre più profondamente concettuale, pur mantenendo ferma l’adesione alla figurazione. Abbandonati gli slanci degli arti e la schiena arcuata, pacificate in una posa frontale e immobile, le figure di Nielsen ci appaiono oggi concentrate in meditazione. Nessuna emozione traspare né dal gesto, assente, né dallo sguardo, che ci è negato dagli occhi chiusi. Le braccia sono distese lungo il corpo. Eppure, questa ulteriore semplificazione formale paradossalmente si traduce in un’aggiunta di contenuti, in un più profondo stratificarsi dei significati. Il corpo diventa superficie e volume, e quella superficie e quel volume raccontano storie. “Io sono un sognatore”, dice l’artista di sé. “Trascorro molto tempo fuori dal mio corpo, viaggiando nel passato, nel futuro o nello spazio. Incurante di quello che mi sta intorno. Poi, quando torno in me, è come se rifacessi l’esperienza del mio corpo”. E proprio dell’esperienza del nostro corpo – e del nostro spirito – parlano queste figure dalla pelle solcata da strisce, cancellata da momenti di assenza di materia. L’involucro diventa interiorità e indagine su un’identità frammentaria, incerta, fragile e in continua trasformazione. L’uomo si sdoppia, tagliato a metà come da un colpo netto di spada e fermato lì, nell’attimo esatto che precede la caduta. Oppure così spezzato l’uomo si ricompone, ma nel processo qualcosa si inceppa, e le due metà, anziché essere riunite attraverso il cuore, si presentano spalla a spalla come due militari in parata. La mente corre all’Io e al suo doppio, al volto e alla maschera, a Dr Jekyll e a Mr Hyde, mentre il contenuto emotivo e conturbante riverbera sull’impeccabile superficie della forma.

Federico Infante, Untitled I, 2017, acrilico su tela, 78 x 57 cm
Federico Infante, Untitled I, 2017, acrilico su tela, 78 x 57 cm

Anche nella pittura di Federico Infante l’uomo è solo al cospetto del mondo. Ma quel mondo e quella natura prendono vita negli sfondi magmatici e ricchi di materia. Conosciamo l’amore di Infante per la materia pittorica, e quel suo modo di trattare lo sfondo istintivo, gestuale, quasi di pittura automatica. È come se l’artista vivesse costantemente il conflitto tra l’istinto e la mente razionale, tra il selvaggio “Es” freudiano e la rassicurante presenza dell’“Io”. Sulle sue tele la lezione della pittura di tradizione si sovrappone alla libertà sfrenata delle avanguardie, e quella libertà trova il suo spazio proprio lì, negli sfondi, che lui realizza lasciandosi andare, distaccandosi completamente dal pensiero razionale, ricoprendo la tela di strati di acrilico e poi grattandolo via, ricoprendola di nuovo, una seconda, una terza volta, e continuando a grattare via, disconnettendo il pensiero logico, lasciando affiorare – appunto – il subconscio. Poi (e solo lui sa quando questo debba avvenire) comincia la ricerca degli elementi emersi, delle forme, delle luci, di una sorta di paesaggio. La dicotomia tra l’indeterminatezza delle ambientazioni e la precisa definizione della figura protagonista è una delle chiavi del fascino di questa pittura intrisa di tensione emotiva. Non ama le etichette troppo stringenti, Federico Infante. E pur riconoscendo le affinità del suo lavoro con la grande pittura romantica (primo fra tutti il Viandante sul mare di nebbia di Friedrich) e pur rintracciando tra gli incontri fatidici del suo passato quello con un’opera emblematica come L’Angelusdi Millet, rivendica l’importanza all’interno della sua poetica del gesto espressionista, e soprattutto si fa un punto d’onore di dare spazio all’interpretazione personale del fruitore, specificando che le sue non sono mai narrazioni chiuse, ma piuttosto spunti aperti all’interpretazione. Qui, come anche nel lavoro di Nielsen, il tema della solitudine è in realtà solo pretesto per un isolamento fisico del soggetto, che l’artista immagina trovarsi più che in uno stato di malinconia in una sorta di trance psicologica. E anche qui, come nelle sculture del collega, salta all’occhio l’evoluzione avvenuta di recente. La sensazione è che l’artista, maturando nella sua poetica, abbia man mano limato ciò che di più emotivo trapelava a vantaggio di una visione più razionale. L’atmosfera vagamente Sturm und Drang si va asciugando grazie a un lavoro di rifinitura degli sfondi, che non hanno più necessariamente bisogno del dato reale (una pur vaga prospettiva, un embrione di paesaggio) ma che ora gridano a gran voce la loro ascendenza astratta, anche grazie all’inserimento di forme circolari che trasferiscono la scena in un altrove onirico. Anche la figura si trasforma, perdendo la primitiva vaghezza che la collocava in qualche modo fuori dal tempo e attualizzandosi nei particolari dell’abbigliamento e nella precisione degli accessori. E separandosi poi ancora più nettamente dallo sfondo attraverso la resa più definita e dettagliata dell’immagine. Se una narrazione esiste, in questi nuovi lavori, è quella che si inserisce come un dialogo tra un’opera e l’altra, una sorta di continuità che talvolta ha forma speculare, qualche altra appare per contrasto e che qualche volta si cristallizza nel dittico. La figura femminile prevale, per quella sua delicatezza intrinseca che in qualche modo va a controbilanciare la “durezza” degli sfondi. E anche per quel bisogno profondo di Federico Infante di uscire dall’opera, di sottrarvisi. “Non voglio che la mia pittura abbia l’aspetto di un racconto personale: quello che desidero è raccontare emozioni universali”.

Presso PUNTO SULL’ARTE, Varese

Alessandra Redaelli