“Bello come l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello”
Isidore Lucien Ducasse, Conte di Lautréamont
Densa di stratificazioni di senso, gremita di allusioni, simbolismi, citazioni e trappole concettuali, la pittura di Alberto Magnani possiede una caratteristica indiscutibile: produce piacere. Sfido chiunque si trovi davanti a una delle sue teorie di camicie appese dai colori saturi, dipinte in punta di pennello ad altissima definizione, a negare il senso di gioia profonda comunicato dagli accordi cromatici, dalle forme nettissime e dal senso della profondità. Mi spingerei a dire che si prova quasi la sensazione di avvertire sulla lingua il gusto pungente del fucsia che sa di lampone, l’avvolgente consistenza pannosa del bianco, il brivido esotico del mango nel giallo caldo e il retrogusto acidulo nel rosso fragola.

Se ci dovessimo arrestare qui – e comunque non sarebbe poco – ci verrebbe istintivamente da inserire questo artista preciso, paziente e con una fantasia onnivora, dentro un discorso relativo all’arte pop. Del resto lui alla Pop Art è stato molto vicino, vivendo a lungo negli Stati Uniti proprio nel momento in cui lì il centro focale degli intellettuali radical chic era la Factory di Andy Warhol. Ma Magnani è europeo, anzi – di più – è italiano, e se qualcosa di quell’atmosfera ha assorbito, non è riuscito ad evitare di insufflarle un contenuto che laggiù non possedeva: l’anima. Ecco che allora il pop è solo un indizio dal quale partire alla scoperta di un artista complesso e labirintico. Perché l’oggetto sì, certamente, è una delle basi del pop. Ma la scelta di quale oggetto apre tutta un’altra storia.
Le camicie, dicevamo. Non un oggetto di consumo – dunque – simbolo di un’umanità bulimica e superficiale, ma un oggetto personale, di affezione, per certi versi. Una seconda pelle che non solo ci copre, ma anche ci identifica. Un involucro che senza di noi appare vuoto, ma che conserva la nostra impronta, la nostra gestualità. Il nostro profumo. E se appesi uno in fila all’altro gli indumenti evocano anime che si urtano e pensieri che si mescolano, quando invece l’artista li lascia aggrovigliati in un cassetto e ce li mostra così, come dopo il passaggio di una mano frettolosa, la stoffa diventa altro, l’anima si diluisce nella forma e la forma diventa il pretesto per un gioco in bilico tra quella figurazione alla quale l’artista è caparbiamente radicato e un astratto appena suggerito, un’allusione di caos possibile, ma sempre tenuto sotto stretto controllo.

Oggi Magnani, però, decide di portarci verso altre strade. Già qualche tempo fa la serie delle cornici vuote – accatastate in equilibrio instabile – suggeriva un bisogno di ispirazioni nuove. E ci parlava di un vuoto diverso, non quello di una manica abbandonata dal suo braccio, ma quello (gravido di altri significati, soprattutto per un artista) di una cornice privata del suo stesso senso: il quadro. Era quello che Magnani definisce “il riposo dell’artista”, un momento di riflessione su di sé e sulla propria vocazione, un bisogno – anche – di ispirazioni nuove. Lui va a cercarle nei mercatini, quelle ispirazioni, seguendo un’abitudine presa, anche quella, negli States, alla ricerca di quelle che Gozzano avrebbe definito “le buone cose di pessimo gusto” e che lui ama per quella bellezza che scova nascosta in fondo alla banalità. Ciò che lo colpisce, improvvisamente, è il fascino prettamente plastico dei caschi – caschi da bicicletta o da moto – e la loro assonanza con la maschera.
Come tutti gli artisti, soprattutto i pittori, Magnani possiede occhi che non funzionano come i nostri, ma che leggono il mondo in maniera completamente differente. Un pittore, ad esempio, non vede un paesaggio o un bel tramonto sul mare: vede un certo numero di sfumature di verdi e di bruni oppure vede un certo modo di giocare della luce sull’acqua. E così non sappiamo se nella mente di Magnani sia arrivato prima il gioco di assonanze e di sinapsi che andava dispiegandosi tra un casco di bicicletta e una maschera africana posti uno accanto all’altro, oppure se abbia colto prima l’irresistibile fascino di due oggetti che apparivano vuoti proprio in quanto privati della forma (l’uomo, il suo viso, la sua testa) che ne determinava il senso. Il fatto è che proprio lì, in quegli oggetti, ha trovato linfa la sua nuova serie di dipinti. Meno affollati di quelli in cui protagoniste sono le camicie o le cravatte annodate come serpenti in letargo, più puliti, costruiti per pieni e per vuoti con rigore geometrico, caratterizzati da fondi a colori saturi, capaci di enfatizzare la tridimensionalità degli oggetti. Eppure per certi versi vicini a quel surrealismo così ben sintetizzato da Ducasse nella sua frase sulla bellezza di un “incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello”; sì, perché Magnani sa giocare magistralmente con le nostre sinapsi e si muove molto a suo agio tra le associazioni libere scatenate dal nostro cervello, ma gli piace confonderci, spiazzarci, e dunque i dialoghi tra oggetti non sono mai troppo immediati né la lettura di senso può limitarsi alla superficie. Eccoci dunque qui, spettatori deliziati ancora una volta da questa mirabile sinfonia di sapori cromatici, a domandarci che cosa ci faccia mai quel casco di bicicletta accanto a quel feticcio di legno, a domandarci se quello è davvero un casco o se non sia per caso il carapace di qualche animale appartenente al futuro e a comprendere poi che quell’oggetto, lì accanto, è una maschera, e quindi qui, a questo livello, si gioca il cortocircuito. La lezione del Surrealismo sfiora il quadro, è appena un retrogusto, ma c’è. Perché nessuno come i surrealisti ha saputo mettere l’oggetto con il suo immenso portato di significati simbolici al centro dell’opera d’arte. Ma è solo – per l’appunto – un retrogusto, perché è troppo intrinsecamente legato ai concetti di armonia e di equilibrio, Alberto Magnani, per potersi mai abbandonare alle atmosfere oniriche e sfuggenti di quel movimento. E poi, quella maschera africana…? Sotto, come un rumore sordo, qui sentiamo anche la voce di Picasso, e la sua passione per l’arte primitiva che lo porta dritto dritto a quelle Demoiselles d’Avignon che ribaltano la visione dell’opera, spalancano lo spazio e inventano il Cubismo.
Maschere africane e maschere del Carnevale di Venezia si alternano all’interno di questi lavori in una stratificazione di significati che va sempre più a fondo, sempre un gradino oltre quello che pensavamo di avere compreso. Perché la maschera non è solo un oggetto vuoto adibito a contenere un volto, ma è anche e soprattutto un secondo volto. Un volto che nasconde la nostra più intima essenza ma che per certi versi, paradossalmente, anche la rivela, dandoci la possibilità – sotto mentite spoglie – di osare ciò che non avremmo mai osato, di essere ciò che realmente, nel profondo, siamo.

Qui si dispiega il gioco seduttivo di un pittore capace di rivelare strato dopo strato sotto la bellezza, sotto la perfezione, abissi di significato. La leggibilità della figurazione va qui – ancora una volta – a intrecciarsi con le fascinazioni di un concettuale ripensato e domato come solo la vera arte contemporanea sa fare. E al centro di tutto, re assoluto, c’è l’oggetto. Quell’oggetto che Picasso ha voluto scompaginare e nel quale il Surrealismo ha cercato significati reconditi; l’oggetto che Andy Warhol ha strappato da uno scaffale di un supermercato e che l’espressionismo astratto ha distrutto nel caos. L’oggetto che da sempre l’uomo, in ogni cultura, ha rivestito di poteri e che oggi come non mai è fulcro della nostra vita. Da quella del collezionista, raffinato fruitore degli oggetti più preziosi al mondo, a quella dell’accumulatore seriale, che senza l’oggetto non può vivere, ma che tra gli oggetti finisce per soffocare.
Presso PUNTO SULL’ARTE, Varese
Alessandra Redaelli