Testo critico | Carta, Forbice, Sasso

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Allestimento mostra Carta, Forbice, Sasso

Quando all’inizio degli anni Trenta del Novecento Alexander Calder realizza i primi Mobiles, la scultura vive uno dei suoi più significativi momenti di svolta. Con l’apparire di quelle strutture leggere, sospese, nelle quali fili sottili tengono insieme infiorescenze di lamine metalliche dai colori pieni e dalle sagome irregolari, non è solo la forma a essere messa in discussione – come, mettiamo, quando Vassili Kandinski apre al mondo l’avventura dell’astratto – e nemmeno la percezione. È proprio la sostanza ontologica della scultura a perdere i suoi connotati. Ciò che dai tempi dell’arte ellenica si identificava con qualcosa di solido, imponente, monumentale, eterno diventa di colpo qualcosa di leggero, volatile, mutevole al primo soffio di vento. Le avanguardie stanno scardinando tutte le certezze dell’arte, e mentre la fotografia incalza la pittura proponendosi come l’alternativa perfetta nel dare una lettura del mondo – e assestando così la spinta definitiva verso la dissoluzione della forma nella direzione di una visione emotiva della realtà – la scultura subisce gli scossoni della perdita di punti di riferimento legata all’instabile situazione politica. Ed ecco che un giovane scultore americano, un uomo di indole allegra, enfant prodige dalla creatività multiforme, ribalta le regole e decide che la scultura non è necessariamente marmo indistruttibile, non sta necessariamente su un piedistallo, non rappresenta per forza qualcuno o qualcosa, ma è gioia cromatica e soffio vitale. Da quel momento in poi, dunque, la scultura non sarà mai più la stessa. Entreranno a far parte di quella categoria lampade al neon e installazioni in stoffa, uova sode e scovolini giganti, forme in cartapesta e ammassi di rami, ambienti luminosi e acqua vaporizzata, ma soprattutto si farà strada l’idea che la scultura, come del resto l’arte tutta, non è più solo una questione di materiali e di forme, ma è soprattutto una questione di significati e di emozioni.

Vaccaro Valeria, Packet of letters 2, 2019, marmo bianco di Carrara e inchiostri, 3x17x11 cm in teca plexiglass e legno 20x40x40 cm.

Valeria Vaccaro – artista giovanissima ma già di grande sostanza – fa un doppio salto e dalla messa in discussione del materiale passa al suo recupero, ma ribaltandone l’intenzione e il senso. Il marmo – perché di marmo qui stiamo parlando – non è più materia inerte e preziosa finalizzata alla monumentalità, ma diventa gioco percettivo ingaggiato con lo spettatore. Il marmo si nasconde, si cela, si mostra sotto false spoglie, gioca a rimpiattino e sorprende. Resta dietro una tenda e poi, come sotto il gesto preciso di un prestigiatore, appare improvvisamente a scatenare la reazione, a strappare l’applauso. Se si traveste da legno mette in mostra venature e imperfezioni, fino alle schegge che potrebbero ferirci le dita; se sceglie di interpretare la parte della carta, allora indossa spiegazzature che ne turbano la perfezione. Non interpreta parti da primattore, qui, ma sta di lato. Si appoggia modestamente al pavimento nella forma di un pallet, come se fosse il rimasuglio di qualche grosso trasporto. Oppure resta lì, cassa da imballaggio anonima, con le precise indicazioni di appoggio e di apertura, a indicarci la preziosità di un fantomatico contenuto che dovrebbe – in teoria – pretendere tutte le nostre attenzioni. Ci guarda e ci tende agguati. In un panorama artistico come quello attuale, dove il pubblico è chiamato ad applaudire mosche morte e sanitari d’oro, il visitatore si avvicina a un lavoro come quello di Valeria Vaccaro già in qualche modo preparato, come se il fatto di trovare un vecchio pallet appoggiato sul pavimento di una galleria d’arte sia qualcosa che ancora lo sconvolge nel profondo, sì, anche se non osa confessarlo, ma che tutto sommato si sente disposto ad accettare. E quando coraggiosamente (è solo un vecchio pallet, in fondo, non una tela di Leonardo: potrò toccarlo, no?) allunga la mano per sfiorare l’oggetto, l’inaspettata consistenza gelida lo spiazza. Ma come? Nel percorso delle sinapsi dalla mano al cervello avviene un cortocircuito tra l’aspettativa e la realtà. Ancora più sconvolgente quando arriva a coscienza la consapevolezza che quello, inequivocabilmente, è marmo.

Allestimento mostra Carta, Forbice, Sasso

Non è però la sorpresa il fine del lavoro di Valeria Vaccaro. Un’artista come lei non si accontenterebbe mai di un coup de théâtre. Il senso va ben oltre. Affascinata fin dall’inizio della sua carriera dagli effetti della combustione sui materiali, quando si è avvicinata al marmo, l’artista ha subito capito come il suo portato di significati e la sua connotazione di solidità e di eternità ben si adattassero alla sua ricerca. Perché la sua ricerca, al di là delle sorprese e dei giochi di prestigio, dell’immagine elegante e ben confezionata, dell’apparente facilità di lettura, è incentrata sulla trasformazione alchemica, sulla metamorfosi. Sul divenire. Quello che le interessa sopra ogni cosa è portare la nostra attenzione su situazioni di instabilità, su contrapposizioni che creino disequilibri e dunque domande. Perché la vera arte ha sostanzialmente due caratteristiche: deve raccontare la società dentro la quale cronologicamente è collocata (e direi che nulla ci definisce oggi meglio del concetto di instabilità) e deve porre delle domande. L’arte vera, infatti, non chiude con delle risposte, ma apre e scandaglia, sconvolge il pensiero e ribalta le convinzioni. Ecco allora che questi pallet, queste casse, questi fogli di carta portano il segno di una bruciatura, più o meno devastante, più o meno profonda. Il fuoco che trasforma – ma che allo stesso tempo tutto purifica e dunque poi tutto ricrea – sembra qui essersi momentaneamente fermato, e quella che l’artista ci propone è la fotografia dell’istante, immortalata nel marmo. Ed è il marmo, paradossalmente, a farsi abitare da questo fuoco impossibile e simbolico che su di lui mai avrebbe attecchito, ma che attecchisce – nella nostra mente – sulla forma che questo marmo ha deciso di rappresentare. Una forma scomoda e umile. La forma di qualcosa che non ha importanza, che di solito l’occhio nemmeno raccoglie. Ma che qui, nello spazio dell’arte, è costretto ad assimilare. Sarebbe una forzatura dire che Valeria Vaccaro vuole farci riflettere su tutto ciò che il nostro occhio si rifiuta di guardare? Sarebbe scorretto chiedere a noi stessi se queste casse – la cui normale funzione è quella di essere aperte e abbandonate in cantina – sono qui a ricordarci che l’occhio va allenato a guardare tutto, a percepire tutto, anche ciò che ci sembra fastidioso e turba le nostre sicurezze? A farci riflettere su come a volte non riusciamo a guardare – magari – tutte le persone con lo stesso sguardo e la stessa attenzione? Forse sarebbe una forzatura, sì. Ma è inevitabile sottolineare come una delle contrapposizioni sulle quali le piace portare la nostra attenzione sia proprio fra oggetto di serie B e oggetto prezioso, scarto e opera d’arte. Stiamo parlando, qui, di una purezza del pensiero che è inevitabile conseguenza di qualsiasi rivoluzione delle certezze: fare piazza pulita sui pregiudizi non può che portare a pensare con più lucidità. Il gioco di contrapposizione tra la leggerezza della carta e la pesantezza del marmo – così come quello tra la fragilità del materiale rappresentato e l’eternità di quello che invece realmente è stato utilizzato – fa da corollario a un unico fine che è quello di ripulire lo sguardo e di riportarci puri alla percezione. E la messa in discussione delle differenze tra ciò che viene letto di serie A e ciò che viene letto di serie B è ulteriormente enfatizzata dalla scelta di affinare il gioco di contrapposizione tra contenitore e contenuto spingendoci a immaginare che le casse siano nate per contenere qualcosa. Cosa, però, non è dato sapere. Una caratteristica del procedimento di Valeria Vaccaro, infatti, è quella di aver deciso di lavorare il marmo per lastre, invece di operare sul pezzo unico. Il motivo è essenzialmente pratico: materiali meno pesanti da maneggiare. E tuttavia questo, da qualcuno, è considerato una specie di sacrilegio. Ma del resto, si sa, il compito di pensare fuori dal quadrato nei campi che una volta erano riservati agli uomini – e l’arte è uno di quelli – è molto spesso affidato alle donne. Ecco dunque che Valeria Vaccaro ribalta un’altra certezza, e quando ci ha dimostrato che ciò che avevamo creduto legno è marmo, ci fa capire che comunque dentro un vuoto c’è. Un vuoto che a questo punto non riusciamo più a non immaginare, e che subito sentiamo il bisogno di esplorare per carpirne il contenuto. È l’ennesimo regalo dell’artista. Allo spettatore e, in una maniera tutta particolare, al collezionista. Per lui, e solo per lui, il gesto di aprire la cassa (di legno, questa volta) che contiene la cassa di marmo (l’opera) che a sua volta contiene l’idea, diventa una performance, un dono. Un gesto d’intesa intimo e segreto.

Valeria Vaccaro, That which remains, 2015, Marmo bianco di Carrara e inchiostri, 170x200x200 cm

Merita un discorso a parte l’installazione Quel che rimane, nella quale l’artista ricostruisce per intero la cameretta di un bambino. L’armadio a due ante, il lettino con le sbarre, la piccola sedia a dondolo, il triciclo e il cavallino sono disposti come se davvero un bambino avesse appena lasciato la stanza. Eppure c’è qualcosa di disturbante, come un’atmosfera sospesa, quasi gotica, che non arriva mai alla piena consapevolezza, ma che pervade sottilmente i pensieri. Non solo per quelle estremità bruciate che fanno pensare al day after di qualcosa che potrebbe davvero essere stato spaventoso, non solo per la foggia inequivocabilmente antica degli oggetti (ma non abbastanza perché ognuno di noi si sia trovato ad averne per le mani almeno uno assolutamente identico, cosa che crea in noi uno spaesamento assoluto), ma piuttosto per quella sensazione di freddo che dall’installazione emana. Valeria Vaccaro realizza infatti qui la magia di riuscire a comunicare la tattilità gelida del marmo al solo sguardo. Nonostante la mimesi sia perfetta, e i nostri occhi percepiscano quegli oggetti come sostanziati di legno, inspiegabilmente quel legno ci appare ghiacciato e distante. Si tratta di una distanza temporale, come se stessimo assistendo a qualcosa accaduto in un prima che oramai non ci appartiene più; perché il fuoco, qui, la materia della trasformazione, ci racconta di un’epoca perduta per sempre, quella dell’infanzia, profondamente radicata dentro di noi nello stratificarsi delle memorie e dei momenti chiave, nodale per comprendere il perché di ciò che siamo ora, intrisa nel ricordo di nostalgia, ma anche punteggiata dai momenti che hanno segnato i nostri incubi e le nostre paure. Ci guarda da lì, immobilizzata nel marmo, sostanziata di oggetti che sentiamo nostri e tuttavia remoti. E, senza capire perché, ci sentiamo come se stessimo fissando uno specchio.

Presso PUNTO SULL’ARTE, Varese

Alessandra Redaelli