Testo critico | Nowhere

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Nicola Nannini | Nowhere | PUNTO SULL'ARTE | Varese

“Credo necessaria una pittura che non sia immagine di un momento, ma insieme sincronico di più visioni e momenti. Sostanza, non impressione”.
Nicola Nannini

 

Nel 1999 Nicola Nannini realizza due dipinti interessanti per comprendere la sua ispirazione e la sua evoluzione. La notte di tutti e di nessuno è un olio su tela imponente, di due metri e mezzo per un metro e mezzo, dove la città di Bologna appare scompaginata, spalancata, ribaltata, in una sorta di neocubismo che l’artista mutua dal disegno di una bambina. La luce danza sulle facciate dei monumenti in un ritmo sincopato, si raggruma in punti incongruenti, si riflette in rivoli liquidi, mentre le figure – fantasmatiche, che sciamano in processione, oppure ben definite ai lati della scena, uscite da un tempo altro – sembrano tutte voler idealmente convergere verso la personificazione della morte, al centro esatto del dipinto. È un lavoro intenso, denso di tutto quello di cui il giovane artista (Nannini allora ha ventisette anni) ha fatto tesoro: il simbolismo e l’arte mitteleuropea, il romanticismo, e poi Munch e Kokoschka, ma ingentiliti da un guizzo di Boldini – siamo in Italia, del resto – e conditi, anche, dall’immaginario cinematografico. Ma soprattutto è un lavoro coraggioso, quasi sfrontato nella sua originalità. Nello stesso anno, dicevamo, Nannini realizza anche un altro dipinto, anzi due che significativamente portano lo stesso titolo: Notte, passeggiata con cappotto e sigaretta. Sono due oli su tela non tanto grandi, discreti: uno misura 40 x 40 e l’atro 37 x 52. E qui siamo su un altro piano. Qui ci parla un Nannini più vero, più autentico. È quello che non ancora trentenne passeggia per la sua città quasi incredulo della bellezza che lo circonda, e ancora più incredulo di quella capacità unica di raccontarla sulla tela che sta scoprendo in se stesso. Si osserva nel suo errare solitario, nel suo scrutare i luoghi della quotidianità per scovarvi tesori, e in quell’immagine del ragazzo che affonda nel bavero la faccia su cui danza la luce incerta della sigaretta leggiamo la consapevolezza di un ruolo. E la stessa consapevolezza è tutta lì, nelle due piccole tele. Nel formato quadrato, che ha per protagonista il Duomo di Ferrara, la pennellata è quella vibrante e incerta dell’Impressionismo (e in fondo il soggetto si può leggere come un omaggio alle Cattedrali di Monet), ma i colori sono già quelli che domineranno i notturni a venire, e così il concentrarsi dell’attenzione su punti di luce inventati e tuttavia imprescindibili, e così la prospettiva precipitante, capace di ingoiare lo spettatore, quella che dopo diventerà la sua firma. Nell’altra – orizzontale – siamo già oltre. Già la pennellata ingaggia con noi quel gioco delizioso che consiste nell’incatenarci al dettaglio per poi rivelarsi macchia, segno.

NANNINI NICOLA, Notte, nessuno in giro, 2019, olio su tela, 100x120 cm
NANNINI NICOLA, Notte, nessuno in giro, 2019, olio su tela, 100×120 cm

Oggi, a vent’anni da quei tre dipinti, Nicola Nannini ci conduce attraverso le sue notti con una serie di lavori nuovi. La notte è rimasta da allora uno dei suoi temi principali in virtù del fatto che lì si enfatizzano i contrasti che l’artista ama di più. Quello tra la luce e il buio, prima di tutto, quello tra il dettaglio e il fuori fuoco della pennellata, quello tra la consistenza materica del colore e quella più diafana della colatura, e da lì quello tra il reale e l’artificiale. Il cortocircuito tra reale e artificiale, tra dato di fatto e illusione, è quello su cui si gioca tutta la sua storia pittorica ed è una sfida che lui ha sempre amato lanciare allo spettatore. Le sue Houses del 2007, vedute di una bellezza lacerante in cui la “bassa” ferrarese ritratta sotto il cielo plumbeo si veste della gelida grazia di Vermeer, sono trappole visive dalle quali a un certo punto chi guarda non riesce più a uscire. Perché è catturato dal dettaglio di quella finestra la cui tapparella è solo un poco sollevata e la cui tenda – potrebbe giurarlo – si sta muovendo, e lui vorrebbe arrampicarsi su quel muro rosso e sbirciare. Deve farlo. Ma nello stesso tempo vorrebbe toccare la tovaglia appesa più in primo piano, ad asciugare, perché è sicuro di sapere già alla perfezione che consistenza avrà il tessuto quando lo sentirà sotto le dita. E che dire di quelle lamiere, della porticina lì accanto che certamente non è chiusa a chiave? E della sedia abbandonata? Vorrebbe anche salire quei tre gradini che portano oltre il primo edificio e dietro ai quali si vede un pezzo di un’auto – strepitosamente gialla – parcheggiata… ma improvvisamente gli viene il dubbio che quelli non siano proprio gradini. Forse è lo scorcio di un passaggio in piano. E da lì al domandarsi quanto sia realmente profondo quel primo edificio è un attimo, perché quella prospettiva, a dirla tutta, è assai strana. E forse – ma non ha il coraggio di confessarlo a nessuno, lo spettatore – se davvero dovesse attraversare quella soglia, lui si troverebbe in un mondo altro, come quello che c’è oltre lo specchio di Alice. Un mondo dove le prospettive ti prendono in giro, le profondità raccontano bugie, dove è impossibile orientarsi e dal quale forse non esiste via d’uscita.

NANNINI NICOLA, NeveNotte n.4, 2019, olio su tavola, 30x40 cm
NANNINI NICOLA, NeveNotte n.4, 2019, olio su tavola, 30×40 cm

Al di là dei labirinti mentali in cui ci può portare, davanti alle Houses, una fantasia un po’ ipertrofica, queste opere sono un inno alla bellezza di ciò che bello non sembrava, prima che l’artista ci mettesse le mani. La banalità del luogo diventa pretesto per una ricerca sullo spazio, sulla forma, sul dettaglio e sulla prospettiva. Di una ricerca sulla pittura. Lo dice proprio, Nannini, di essere felice “del nulla che abito, perché così non si rischia di essere schiavi della bellezza, si è costretti ad attivarsi per cercarla”. E dice anche che tutti i suoi soggetti, diurni o notturni, spazi, ambienti, paesaggi o figure, altro non sono che un mezzo per dare voce a quella cosa meravigliosa che è la forma pittorica. Quella forma che fa sì che davvero lo spettatore abbia la sensazione di sentire sotto le dita il tessuto della tovaglia appesa ad asciugare, ma nel contempo, avvicinandosi al dipinto, non possa fare a meno di rendersi conto che lì, in quel preciso punto, quello che lo aspetta non è l’iperrealtà della trama della stoffa, ma la poesia indefinita della pennellata.

Accade la stessa cosa con le figure, nella pittura di Nicola Nannini. Se all’inizio amava le scene di famiglia, gli autoritratti, i ritratti in stile antico che rendeva con una pennellata densa e compendiaria (ne esistono di incredibilmente poetici realizzati su piccole lavagne), quando nel 2005 inizia la serie dei Type, l’artista trova una formula in cui al suo figurativo polposo, caldo, vibrante, terribilmente carnale si affianca un gradevole gioco concettuale. È, quello, il momento in cui la sua vicinanza a un artista come Lucian Freud è più leggibile. La carne delle sue donne e dei suoi uomini nudi è un tripudio di realtà che ci porta a osservare quei corpi così da vicino da perderne la visione d’insieme per rintracciare le mille tonalità inaspettate dell’epidermide, e poi ecco che anche qui, improvvisamente, l’occhio incontra la consistenza della pennellata, quella pennellata che tutto costruisce e modella e che poi, per un capriccio, si nega nel dettaglio del piede fino a diventare trasparenza, idea. Ma non è tutto: quel corpo così vero da poterne saggiare il calore, non è ambientato, ma si staglia su un fondo neutro, frontale o di profilo. Circondato da particolari anatomici da manuale medico se nudo, o dai suoi accessori se invece ci si presenta vestito. Il ritratto, qui, prende l’aspetto di una definizione della personalità fatta per dettagli, per indizi, come nella ricostruzione di un profilo condotta durante un’indagine poliziesca. E dietro quello che potrebbe sembrare un gioco infantile – la bambola con i suoi accessori – si muove un’analisi sottile intorno all’essere e all’apparire. O, ancora una volta, al reale e all’artificiale.

Nelle opere in mostra oggi a Varese si può leggere una sintesi dell’evoluzione che l’artista ha vissuto fino a oggi. La ricerca di un’anima dei luoghi – nel senso più vicino a quello che potrebbe dare a questa definizione un filosofo come James Hillman – continua nell’identificazione di una serie di momenti spaziali assoluti, di non luoghi, che in diversi Paesi d’Europa e degli Stati Uniti conservano una purezza che li accomuna alle provincie italiane, ancora a quella “bassa” ferrarese così non bella eppure diventata così incantevole e raggiante nelle mani dell’artista. È un vagare nello spazio, quello di Nannini, dalle notti mitteleuropee tra Germania, Repubblica Ceca e Slovenia alle campagne del Sud dell’Inghilterra, che lui giura siano incredibilmente simili alla periferia di Ferrara, fino alle strade più desolate dell’Idaho, dell’Oklahoma, dell’Arkansas. Ma è anche un viaggiare nel tempo, dal Vermeer della Veduta di Delft fino alla luce incantata di Edward Hopper. Nel Vicolo di Caronte e nella Notte in giallolo stesso luogo è inquadrato da due punti di vista differenti, e già questo evidenzia come non sia tanto il soggetto a interessare l’artista quanto la possibilità di portare lo spettatore su quella scalinata che va restringendosi, dritto tra le braccia di quel punto di luce rossa di cui si ignora la fonte; oppure a intrigarlo è la luce riflessa sulla vetrina che ne rivela in parte il contenuto. Il sistema della prospettiva precipitante, con una larga porzione del quadro riservata al pavimento, si è fatto negli anni sempre più raffinato e sottile, così come la capacità di modificare la scena senza che ciò sia chiaramente percettibile. Ripulire l’immagine dai dettagli di abbellimento, modificare il contrasto chiaroscurale in senso espressivo, rielaborare la luce accendendo nuovi punti di forza è il metodo attraverso il quale Nannini ripensa il mondo per noi. Un delizioso artificio apparentemente così vero da lasciare spiazzati. Mentre si fa sempre più sofisticato il gioco della pennellata, apparentemente così definita da raccontarci un mattone alla volta, in realtà potentemente impressionista fino ad arrivare – in primissimo piano – all’espressionismo del non finito.

NANNINI NICOLA, Neve, ora tarda, 2019, olio su tela, 100x120 cm
NANNINI NICOLA, Neve, ora tarda, 2019, olio su tela, 100×120 cm

La notte invernale, poi, immersa nella neve, ha dato a Nicola Nannini la possibilità di scivolare dalle luci calde ma artificiali della notte cittadina alle tonalità fredde che si rapprendono intorno ai bianchi, ai grigi, ai verdi, ai gialli gelidi di neon. Rispetto alla maniera in cui aveva affrontato il tema della neve nel 2015, dedicando una serie all’altopiano di Asiago con vedute in lontananza di paesaggi innevati, Nannini qui decide di restringere il punto di vista a un soggetto preciso che pone al centro del dipinto, personalizzandolo come un’icona. La strada che si perde nella campagna (in fondo alla quale le luci posteriori di un’auto sembrano occhi rossi in agguato nel buio), la bassa costruzione con i silos accanto, l’edificio sperduto con quelle due finestre accese, la villa rossa sotto l’incombente cielo plumbeo, ci fissano negli occhi, ci guardano dentro, ci parlano e ci raccontano storie. Con queste vedute Nannini ha unito l’anima dei suoi Type, dei suoi tipi umani, all’anima degli edifici nei quali abitiamo. E per scatenare in noi quell’immediato senso di smarrimento e di appartenenza, qui l’artista non ha più bisogno di nient’altro che della sua magica capacità di penetrare dentro le cose, scavandovi fuori pensieri inquieti e respiri, regalandoci una pittura che non ha nessuna intenzione di lasciarci pacificati nella bellezza, ma che continua a battere dentro per un bel po’, anche quando, a malincuore, abbiamo staccato lo sguardo.

Presso PUNTO SULL’ARTE, Varese

Alessandra Redaelli