LA TERRA MALEDETTA DI JERNEJ FORBICI

I paesaggi sono da sempre uno dei soggetti centrali nella storia dell’arte. Un omaggio alla grandiosità di un vasto prato, una rappresentazione di un minaccioso cielo nuvoloso sovrastante un piccolo paese su una collina, o un disegno di un placido campo coltivato o, ancora, un’invitante e minuziosa descrizione visiva di una foresta tropicale, indomita e fitta, costituiscono ricorrenti istanze di una fattispecie ben più ampia. L’elemento naturale rappresenta uno dei fulcri principali attorno a cui si è sviluppato nei secoli il discorso artistico. Questo per l’infinita curiosità che da sempre spinge l’uomo all’imitazione della natura, alla rappresentazione dei suoi scorci più suggestivi, che diventano così fruibili, accessibili e quotidiani. Nella continua dinamica di appropriazione che caratterizza il rapporto tra l’essere umano e la natura, l’atto di segnare ha costituito per lungo tempo un potente strumento di affermazione del potere.
Così, a partire dallo stanziamento delle prime comunità umane, fino alle gigantesche metropoli contemporanee ospitanti milioni di abitanti, passando per una storia fatta di siepi, solchi, recinzioni, limiti, cancelli e confini statali, l’uomo ha modellato lo spazio, facendo del territorio naturale la prima risorsa da cui attingere assiduamente. La costruzione di strade e infrastrutture a servizio dell’essere umano ha garantito una maggiore comodità e una connessione vasta e capillare, segnando la terra sottostante indelebilmente. A scapito dei paesaggi naturali, la distanza tra uso e abuso si è progressivamente accorciata, facendo dell’uomo la causa prima del deterioramento ambientale. In un circolo vizioso e viziato, i danni causati dalla presenza umana sulla natura inesorabilmente peggiorano la condizione umana: a cadenza regolare, le comunità umane diventano vittime occasionali di catastrofici eventi, che dopo aver ottenuto quel poco di esposizione mediatica necessaria a generare un comune senso di effimero sdegno, ricadono presto in un impolverato contenitore. In questo album fotografico custodito su un’alta mensola della nostra memoria collettiva, gli eventi sono catalogati per anno e riportati in una prospettiva che è dimentica della profondità dell’avvenimento, favorendo una maggior ampiezza della visione d’insieme per tutti coloro che, per fortuna o per destino, non sono stati direttamente interessati dagli effetti delle vicende. Per molti di questi individui, è facile far scorrere le pagine di questo album in maniera distaccata e a tratti annoiata, in una lettura senza impegno e a proprio uso e consumo che contribuisce a far sentire il soggetto più fortunato.

Immersi in una realtà fatta di agio, diventa raro comprendere la prospettiva dell’altro, fino al punto di chiedersi: cosa ne è delle comunità colpite dopo lo sbiadire del ricordo e l’ingiallirsi delle pagine dei giornali? Cosa rimane a tutti gli individui che per posizione geografica sono vittime delle scelte di carnefici senza scrupoli? Come invocare aiuto quando non c’è voce che prevalga sul chiasso mediatico fatto di immagini forti e notizie scandalose?
Ove questa condizione non costituisce un evento disastroso ma lo stato ordinario delle cose, il delitto è comunemente accettato come fosse uno dei tanti effetti indesiderati di una pillola anti-dolorifica. In questo caso, è possibile porre attenzione alla questione solo se chi ha avuto diretta esperienza di queste realtà sceglie di mettere luce su ciò che ha segnato la propria esistenza irrimediabilmente.
Jernej Forbici nasce a Maribor, in Slovenia, nel 1980 e fulcro centrale della sua produzione artistica è l’effetto disastroso dell’inquinamento derivante dalla presenza umana sul territorio naturale. In particolare, le sue opere raccontano la storia di Kidričevo, una piccola città segnata dall’industria di alluminio e dagli effetti dannosi del fango rosso, uno dei rifiuti generati nella lavorazione della bauxite, così chiamato poiché annovera tra i suoi principali componenti l’ossido di ferro. Questa sostanza, fortemente alcalina, è caustica e tossica per l’uomo e l’ambiente. Il costante degradamento naturale derivante dall’attività produttiva umana trova rappresentazione nei numerosi progetti di Forbici, che si fa testimone di una storia di cronaca senza lieto fine.

Numerosi sono i quadri, spesso tele monumentali che favoriscono un’esperienza immersiva, in cui l’artista denuncia la dannosa presenza della sostanza rossa che soffoca la vegetazione sottostante, senza mascherare la stretta dipendenza dei catastrofici eventi dal parassita umano che ne è artefice.
E così, nella rappresentazione di un vasto prato verde punteggiato da molteplici fiori colorati, l’occhio del visitatore non può che soffermarsi sulla minacciosa onda rossa che sembra sgorgare come sangue da una ferita inflitta al terreno: l’opera Newborn dead flowers (Fiori morti neonati) accompagna il visitatore in questo terrificante viaggio su di un treno fantasma che conduce a un triste finale.

Il primo aguzzino di Madre Natura è l’uomo stesso, che Forbici sottilmente condanna. Abile nelle sue modalità, l’artista non denuncia direttamente l’essere umano, ma nega la sua presenza fisica sulla tela, e lascia trarre le ovvie conclusioni al visitatore. Tramite una pittura fatta di pennellate graffianti e di sovrapposizioni cromatiche nette, Forbici rappresenta i tragici effetti sull’ambiente della presenza umana che sapientemente è resa attraverso l’assordante assenza dell’uomo. Tutto parla dell’essere umano, ma ciò che è dato al visitatore è una rappresentazione paesaggistica. L’uomo non è nascosto accovacciato dietro l’immondizia accatastata nel campo dell’opera Piles of Garbage, poiché in realtà Forbici fa dell’inquinamento il portavoce ufficiale dell’essere umano. Il segno che l’uomo lascia.

I fiori sono nella produzione artistica di Forbici la sintesi della bellezza naturale per eccellenza: graziosi e delicati, costituiscono una preda facile per chi rimane ammaliato dal loro aspetto. Ma che fare, quando anche l’ultimo fiore verrà strappato e il terreno non sarà più fertile? All’uomo non rimarrà che circondarsi di fiori di plastica, ugualmente attraenti, ma sicuramente senza il loro ammaliante profumo: l’artista dà una sua profetica rappresentazione di questo scenario in FPF (Fake Plastic Flowers), dove i fiori, ritti in primo piano come tanti pugnali infilzati nel terreno, hanno petali dalle sfumature non naturali.

I pochi fiori rimasti sono secchi, avvizziti e hanno perso la corolla, negli spazi verdi intorno a Kidričevo. Forbici, in occasione del suo progetto Herbarium ha presentato alcuni dei pochi superstiti in cornici e teche illuminate da lumini, rendendo lo spazio espositivo simile a un piccolo cimitero. Cristallizzati nella resina, la collezione di fiori è resa fruibile come in una sempiterna enciclopedia, che rende memori della loro antica varietà biologica, in una silenziosa vetrina recante gli effetti di una produzione industriale non controllata. Tuttavia, nonostante la suggestiva installazione possa ricordare le pagine di un vecchio libro dalle illustrazioni colorate, quella di Forbici è un’opera di sottile denuncia ben più triste: i fiori, che lui raccoglie e cataloga grazie all’aiuto di due biologi affinché anche il figlio Jakob un giorno possa ammirarli, sono inevitabilmente morti e, di conseguenza, fruibili solo da una teca. Una barriera fisica che pone un limite, un segno che divide ciò che è vivente da ciò che è estinto, in un atto di museificazione al pari di quello riservato ai fossili di animali preistorici.

Quello di Forbici è un esempio mirabile di carriera devota all’attivismo artistico, o come lo definirebbe Tania Bruguera, di artivismo, presente in tutte le sue opere, in cui sceglie di creare un contrasto tagliente tra i verdi campi e gli aloni di rifiuti chimici. Perché la sua produzione artistica costituisca un segno permanente nello sviluppo della storia dell’arte e una denuncia che possa sentirsi chiaramente sopra il brusio effimero della contemporaneità.