Intervista | RAFFAELE MINOTTO

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PADOVA. Ascoltare l’accento veneto mette sempre allegria, e la chiacchierata con Raffaele Minotto, nato e cresciuto a Padova, è ancora più piacevole, vista anche la simpatia della persona e la sua disponibilità a raccontarsi. Prossimo ospite di PUNTO SULL’ARTE con la mostra “Memories” (dal 1° ottobre al 9 novembre; inaugurazione sabato 28 settembre dalle 18 alle 21), con le opere che più lo caratterizzano, gli interni e le tavolate imbandite, e la novità di alcune tele dedicate al paesaggio invernale, il pittore ripercorre la sua vita artistica e professionale, con un pizzico di autoironia e molta passione.

M.C.: Cosa è per lei la memoria, uno stimolo o una “dannazione”?

R.M.: I miei soggetti sono il frutto di una “lunga” memoria. I miei genitori erano i custodi di un palazzo nobiliare del centro di Padova, io sono cresciuto in quelle stanze e tuttora ne ho il libero accesso. I proprietari sono anziani e spesso assenti, ma la dimora è perfettamente conservata, con gli arredi originali, come se qualcuno fosse sempre in procinto di tornare. Io memorizzo la luce di quelle stanze come in un set cinematografico, scatto alcune fotografie e poi elaboro il quadro.

RAFFAELE MINOTTO, Le luci dell’attesa, 2018, olio su tavola, 120 x 120 cm

M.C: Lei afferma che fa questo lavoro per passione: cosa vuol dire coltivare una passione vera oggi, nell’epoca del tutto facile e tecnologicamente accessibile?

R.M.: Ho iniziato bambino a disegnare, sono figlio unico e il disegno mi consentiva di passare il tempo. Il marchese era militare di carriera ma amava l’arte, io sono cresciuto in mezzo al bello. La marchesa è stata quasi una nonna per me, collezionava quadri e voleva vedere i miei disegnini: li acquistava ma mi diceva “però te li tieni tu”. La passione mi ha sempre accompagnato e lo fa tuttora, nonostante, in gioventù, i miei mi dissuadessero dal fare il pittore. Ma ho tenuto duro e, se all’inizio dipingevo senza pensare a eventuali guadagni, ora sono più attento alla vita reale e ho allargato la mia visione, legandola a una logica di mercato e di gallerie, con piccoli compromessi ma rimanendo fedele a me stesso.

M.C.: Lei si ispira a Monet, ma non c’è un poco di Scapigliatura nei suoi dipinti, un tantino di Cremona e Ranzoni?

R.M.: C’è moltissima Scapigliatura! E non solo, anche suggestioni dalla pittura napoletana, Antonio Mancini per esempio, e gli scapigliati per gli interni e i ritratti. Monet per la luce, in passato ero più figurativo, usavo più materia e i quadri erano meno definiti. Amo l’ultimo Monet, quello che anticipa l’informale.

M.C.: Cosa fa Raffaele Minotto se non dipinge?

R.M.: Ho due figli, di 12 e 14 anni, l’impegno con loro è parecchio. Poi c’è il lavoro in studio, gli amici mi dicono: “Sei l’operaio della pittura” perché incomincio alle otto del mattino e finisco alle sei di pomeriggio, ma credo in un lavoro che sia anche artigianato, al quale ti devi dedicare non lesinando il tempo. Non sono uno sportivo e non guardo il calcio in tv. Mi piace ascoltare musica anni ’70, rock e jazz, ma anche un po’ di classica e contemporanea.

RAFFAELE MINOTTO, Il banchetto, 2019, olio su tavola, 50 x 60 cm

M.C.: Quando dipinge ascolta musica o questo la distrae?

R.M.: Di solito ascolto cose tranquille e anche molto la radio, ma quando un quadro non mi sta convincendo, spengo tutto. Bruce Springsteen rimane il mio preferito, ma anche Tom Waits e, tra i jazzisti, Chet Baker, Bill Evans e John Coltrane, con il quale la pennellata scorre più libera. Non sono un cinefilo, anche se ho molto apprezzato ultimamente il film su Van Gogh di Julian Schnabel, che lo ha raccontato con gli occhi dell’artista olandese. Anche ai miei figli è piaciuto, più di quello su Freddy Mercury. Il più piccolo ha talento e già disegna, riproduce a memoria i personaggi delle serie televisive, mentre il grande ha più una mente scientifica.

M.C.: Quanto conta la solitudine per un artista? E l’incontro con gli altri?

R.M.: Nel mio studio mi piace essere solo, se arriva qualcuno rallento il lavoro. Da solo ci sto anche bene, sono collega di me stesso. Ma non dimentico gli affetti, come dimostra la serie di opere dedicate alle vecchie botteghe di via Euganea, dove ho lo studio. Ci andavo da bambino con mio padre, e i bottegai sono amici ormai molto invecchiati. Scomparsi loro, anche questi negozi, dove si entrava anche solo per salutare e scambiare due parole, purtroppo spariranno.

RAFFAELE MINOTTO, Salotto blu, 2019, olio su tavola, 70 x 70 cm

M.C.: Come si trova a vivere in provincia? Che tipo di città è Padova nei confronti di un artista?   

R.M.: Quando vado a Milano ho un po’ di invidia per le opportunità di lavoro che potrei avere in più, ma poi penso che molte cose buone oggi vengono dalla provincia o almeno da realtà più appartate. Padova purtroppo offre sempre meno, con amministrazioni, di destra o di sinistra senza distinzione, carenti e disattente o piuttosto superficiali nelle scelte. C’è un po’ l’atteggiamento di voler accontentare tutti senza selezionare, con gallerie dove espongono indistintamente artisti di talento e dilettanti. Infatti non ho alcuna galleria nella mia città che mi rappresenta. È così difficile mettere una volta a capo dell’assessorato alla Cultura una persona competente che programmi e faccia scelte precise?

M.C.: Lei è un pitture figurativo, non sente di andare un poco controcorrente?

R.M.: La vera pittura continua a esistere, ci sono parecchi giovani bravi che arrivano anche alle Biennali, dopo tanta indigestione di installazioni e video. Sì, mi sento a volte un po’ messo da parte, ma mai escluso.

Mario Chiodetti