Le figure di CLAUDIA GIRAUDO animano ormai da tempo tutto il panorama dell’Arte Contemporanea, al punto di fare della loro creatrice una firma riconoscibile e apprezzata a livello internazionale. Giraudo è un’autrice particolarissima che da tempo nelle proprie tele crea atmosfere surreali, spesso giocose, altre volte pensose, dove si muovono fanciulli dall’aspetto magico e misterioso con animali simili a demoni e spiriti guida.
Claudia Giraudo ha esposto di recente in luoghi pubblici e Istituzionali in Italia e all’estero quali il Museo Nazionale Etrusco Villa Giulia e il Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese a Roma, il Polo del 900 a Torino, il Museo Ebraico a Bologna, The Artist House a Tel Aviv, il Museo Nazionale di Ravenna, l’Ex Ospedale di San Rocco a Matera e il Museo Casa del Conte Verde a Rivoli.
ARTE COME DESTINO, COME MISSIONE
«Noi non decidiamo di avere sonno o di avere fame, i bisogni primari ci investono senza che possiamo essere noi a decidere quando. È qualcosa fuori dal nostro controllo. Dunque, dipingere è stato per me un bisogno primario, come dormire e mangiare, e come tale è emerso spontaneamente, e direi in modo prepotente: capivo di non avere molta scelta. Il messaggio è stato chiaro; se non avessi assecondato questo sacro bisogno, una parte di me sarebbe morta» – C.G.

Per avvicinarsi alle opere di Claudia Giraudo è importante ricordare un episodio che lei stessa ha definito fondamentale per il proprio percorso. L’artista ha raccontato di come sia rimasta colpita dalla lettura dell’opera I codici dell’anima di James Hillman. Da questo testo ha tratto il concetto di “Daimon” che oggi investe profondamente le sue tele.
Quello del Daimon è un concetto molto caro ai classici e da sempre se ne ritrova eco nella letteratura greca e latina. Nel mito di “Er” Platone lo chiamava paradigma, in greco paradeigma, che significa «modello» (o «progetto») ed «esempio», da seguire, a cui affidarsi. È una metafora poetica dell’esistenza ma anche una dichiarazione d’intenti. Il paradigma è la forma fondamentale della persona, un’immagine, un’ombra che la accompagna nella vita e mai l’abbandona, sebbene non abbia potere coercitivo sull’io. Sta all’individuo riconoscerla e assecondarla. Esso è dunque il demone interiore, positivo, che rappresenta la natura profonda dell’individuo e ne guida le scelte fintanto che questi è in grado di ascoltare la sua voce al di sopra di tutte le costrizioni sociali.
Hillman sa essere ancora più incisivo nel chiarire il concetto: «Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo “qualcosa” lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti con la forza di un’annunciazione. Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere. Ecco chi sono». La stessa Giraudo ha avuto dunque la propria, di fascinazione, l’odore dei colori a olio di cui oggi si circonda e dei quali ha fatto la sua ragione d’essere. «Per me la pittura è stata un rifugio – sottolinea – L’odore di pennelli e vernici è qualcosa che mi porto dentro. A casa mia solo la mamma dipingeva come dilettante: io prendevo la sua scatola di colori a olio e li consumavo dedicandomi alla mia passione. Da sola.»

SOGNI E DEMONI DALL’INFANZIA
«Andando in profondità, vedo che la grande solitudine che ha caratterizzato la mia infanzia ha trovato conforto e compagnia nella pittura e negli animali esotici, che vedevo solo su riviste specializzate e documentari. Gli animali sono entrati nella mia vita di bambina, e quando mi hanno trovato non mi hanno più lasciata».
L’inquietudine dell’infanzia presente nei suoi quadri è stata anche la sua. La pittura – dice – le ha fatto da mamma, da papà, amica, baby-sitter, compagna di avventure e anche figlia. È nel dialogo con sé stessa e la propria parte onirica che nascono le figure che Giraudo consegna a chi osserva, in un gioco di continui rimandi che indicano un difficile e inquieto percorso anche personale proprio alla riscoperta di quel Daimon interiore che ognuno dovrebbe tendere a riaffermare nel proprio vivere. Scrive ancora Hillman: «Noi nasciamo con un carattere che è dato; che è un dono, come nella fiaba, delle fate madrine al momento della nascita». Alla luce di queste parole non può che divenire chiara la poetica dell’Arte di Giraudo, che è la realizzazione della sua intima essenza, nonché la sua missione.

I bambini che Claudia Giraudo raffigura ricordano i bambini sperduti dell’Isola che non c’è, o ancora le creature incantate de Il mondo oltre lo specchio dove si perde l’Alice di Lewis Carroll, non perché il riferimento sia quello, bensì perché l’immaginario è lo stesso: l’età aurea della fanciullezza, dove immaginazione e realtà coincidono, dove tutto è possibile e dove allegria e riflessione non sono atteggiamenti opposti ma un’indole innata.

La pittrice si dice legata al mondo dei cantastorie, dei circensi, dei poeti e dei teatranti, ma anche del mito e della fiaba. Nei suoi oli su tela profondi e senza tempo, figure leggiadre che incarnano la giovinezza incontrano farfalle, levrieri, camaleonti, rospi e gatti. Gli animali sono riprodotti con grande precisione ma non priva di uno sguardo simbiotico e carezzevole. Essi sono simboli totemici, esoterici.
Sono companion, all’inglese, e messaggeri. Sono poi figure enunciazionali: non ti dicono chi sono loro, ma chi sei tu che li guardi.
Quello che Giraudo compone è quasi un bestiario dell’animo umano. Non violento, semmai amorevole. Nelle sue opere dominano la pace e la gentilezza: lo si avverte nell’armonia dei colori e nella sinergia che intercorre tra tutti i soggetti delle tele, uniti cromaticamente ma anche fisicamente e spiritualmente. Una tranquillità che inoltre non teme l’uso di colori spesso molto accesi o le espressioni serie, penetranti o sfuggenti sui volti. È chiara la simbiosi tra figura umana e animale: c’è armonia nella posa, continuità dei colori, dei tratti, dei dettagli.

L’animale non è alterità ma piuttosto un’iconica raffigurazione della personalità dei fanciulli, e risuona degli stessi sguardi, dell’espressione, dell’atteggiamento e della luce che questi hanno negli occhi. Eppure quelle di Giraudo sono creature parlanti, loquaci, e in questo hanno preso dalla loro creatrice, la cui fervida immaginazione si riversa come un oceano.
Sfondi monocromatici fanno risaltare le creature di Giraudo come icone della fantasia, come figure di un universo magico. È la magia dell’infanzia, incarnata nello spirito guida, che non va sprecata, va contemplata, assecondata, seguita, rincorsa, accudita.
La “messa in scena” – afferma l’artista – è una delle parole chiave della sua opera. L’amore per la pittura classica e del Rinascimento si fonde in Giraudo con richiami all’arte moderna, come gli sfondi vuoti, flat, che portano in primo piano la forza dell’immagine. Per Giraudo lo scopo della sua pittura è quello di portare in superficie il suo mondo interiore, come dono per gli altri, affinché possano partecipare e riflettere. «La pittura attraverso le immagini ci cura».


Nella pittura di Claudia Giraudo c’è dunque un intento propedeutico alla vita di ciascuno: «Bisogna lasciarsi guidare dal Daimon, la nostra parte invisibile che ci rassicura e ci guida e bisogna avere fiducia. Non ci sono garanzie nella vita, bisogna imparare a vivere seguendo quello in cui crediamo. È il senso della vita. Cerco di dirlo anche agli adulti: ritrovate in voi quel rifugio, quello spazio interiore che io ho trovato quando ero piccola. Attingete al vostro bambino interiore».
STUDIO VISIT

È sempre importante vedere gli artisti nei loro spazi e circondati dalla materia di cui si compone la loro arte. Un angolo dello studio di Giraudo è ricoperto di colori a olio, mille sfumature in quel disordine che è ordine per chi sa come guardarlo e sa trovare ciò che cerca. Sono in attesa che arrivi il momento del dipingere.
Racconta la stessa Giraudo che il suo approccio alla pittura è duplice, e la fase ideativa è notevolmente differente da quella realizzativa: «Devo lasciare libero sfogo a tutta la mia follia da un lato (emisfero destro) e dall’altro ho un’attitudine da ricercatore, quasi un approccio “scientifico” allo studio (emisfero sinistro)».

A Giraudo piace seguire strade non convenzionali, ama le voci fuori dal coro, indaga il proprio istinto e si fa guidare da esso.
«Il Cercatore è quella parte di noi lucida e razionale che cerca risposte anche a costo di attraversare esperienze complesse e complicate». Il risultato è dunque qualcosa di estremamente selvaggio, non perché brutale ma semmai perché evidentemente al di sopra di qualsiasi stereotipo.
Dalla serie ideativa e istintiva nascono spesso ritratti androgini, figure colte nella loro bellezza eterea e primordiale, quando maschile e femminile non hanno preso forma «prima che l’età costringa a una scelta di genere, perfette e autosufficienti nella loro duplicità, in cui l’unità degli opposti garantisce la felicità, e la separazione non avvenuta delle anime e dei corpi non ha innestato dolore per la perdita e nostalgia della propria metà».
Poi, dopo l’impeto creativo, arriva la tecnica, perfetta, che le permette di renderci evidente allo sguardo il frutto della sua “follia” immaginativa. La poetica di Giraudo è così limpida da rendere inconfondibile ognuna delle sue opere, e altrettanto si può dire della sua pittura. La qualità tecnica delle sue tele è infatti molto alta: l’artista è molto attenta a restituire agli spettatori tutti i particolari della propria visione, riuscendo con successo a creare in ogni opera un microcosmo senza sbavature. La verosimiglianza non toglie nulla alla fantasiosa e bizzarra costruzione poetica ma al contrario ne accentua la visionarietà.
È grande l’influenza pittorica rinascimentale e dei maestri italiani, che crea un contesto di grande realismo. Giraudo inizia con la perizia quattrocentesca delle velature a olio. Il gesso sulla tela, di lino, realizzate appositamente per lei da artigiani di cui si fida. Poi è il momento dell’abbozzo, del disegno a matita acquerellabile e acrilico. Lavora fittamente, definendo ombre e rapporti compositivi, finché non sia certa che funzionino. A questo punto inizia il dipingere, uno strato di colore a olio dopo l’altro. Infine, le velature finali in trasparenza, per esaltare la profondità e l’intensità dei colori. Sono passaggi non nuovi all’Arte: molto spesso li ritroviamo nella ritrattistica e nello still life, che hanno l’obiettivo di restituirci con nitidezza il reale delle cose. Giraudo, così facendo però, riesce a restituirci il reale della propria immaginazione: gli incarnati delle sue bambine sembrano quelli di fotografie o di modelli copiati dal vero. Ma l’unica verità che Giraudo riproduce è quella che si porta dentro.


Claudia Giraudo vive dunque la pittura come un gesto atavico che le permette di portare in superficie il proprio universo interiore, che a sua volta si mette al servizio del mondo. Il rapporto che ha con l’arte è dunque un rapporto intimo e di creazione, come un cordone ombelicale che poi va reciso nel momento in cui l’opera è terminata perché «i quadri sono come dei figli che bisogna lasciar andare per la loro strada affinché compiano il loro destino. Quando li lascio andare, vanno ad accompagnare le vite delle persone che avranno intorno».
BIOGRAFIA

CLAUDIA GIRAUDO nasce nel 1974 a Torino. Si laurea nel 2001 con il massimo dei voti presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, sotto la guida del Prof. Franco Fanelli. Intraprende il suo percorso di ricerca nell’ambito della pittura figurativa formandosi attraverso lo studio delle opere dei Maestri Rinascimentali e Nordeuropei; questo background emerge sia nella tecnica che nella scelta dei soggetti, pur mantenendo la sua personale cifra stilistica. Espone con frequenza in fiere d’arte, gallerie private e in luoghi istituzionali pubblici. Le sue opere si trovano anche in collezioni permanenti e acquisizioni museali nazionali e internazionali, tra cui l’Harmony Art Foundation di Mumbai (India), il Museo MACIST di Biella, il Museo Eusebio di Alba (CN), la Sala del Consiglio di Bossolasco (CN) e il Museo Civico di Bevagna (PG). Vive e lavora a Torino.