Silvia Levenson vive in Italia dal 1980, quando con il marito e la famiglia fuggì dall’Argentina, per stabilirsi alla fine a Lesa, sul lago Maggiore, dove attualmente vive e lavora, quando non è in giro per il mondo a insegnare la tecnica di lavorazione del vetro e a parlare della sua esperienza.
La casa è un rifugio, una sorta di coperta avvolgente che ci protegge dalle insidie ma può trasformarsi in una sorta di caverna, in cui la violenza e la sopraffazione trovano alleati nei muri e nelle porte chiuse. Silvia Levenson è un’artista che ha provato sulla sua pelle la “guerra” domestica tra sua madre e il compagno di vita, bambina in un mondo di adulti quasi incomprensibile, nella Buenos Aires della dittatura di Videla e dei desaparecidos.

La bambina di allora, oggi Levenson ha 63 anni, ha elaborato il lutto esprimendo nelle sue opere quella violenza in apparenza nascosta e in realtà più frequente di quanto pensiamo, talvolta messa a tacere dalle convenienze e dal pudore.
Mario Chiodetti: Cosa le è rimasto dell’Argentina dopo tutti questi anni di lontananza?
Silvia Levenson: «In realtà non è un distacco totale, quasi ogni anno ci ritorno, là vive mia sorella Bibi. Però dopo qualche tempo sento la nostalgia per l’Italia, qui abito in un luogo tranquillo, quasi isolato, ottimo per lavorare in pace. Però amo viaggiare e insegnare, l’ho fatto negli Stati Uniti, in Giappone, o recentemente alle Isole Shetland e in Australia, faccio tutoring per altri artisti, creo gruppi di lavoro».
M.C.: Nelle sue opere l’universo domestico appare come un nido di orrori.
S.L.: «Negli anni Settanta si cercava in ogni modo di evadere da casa, di andare lontano e avere la propria indipendenza. Oggi il fenomeno è contrario, in casa ci si sente protetti dalle brutture del mondo e si tende a isolarsi. Allora in Argentina il nemico erano i militari e noi le vittime della dittatura, ma nel mio caso dovevo subire anche la mia situazione familiare: mia madre era separata e il compagno la picchiava. Io ero piccola e pensavo che lei non fosse in grado di proteggere me e mia sorella dai pericoli. La violenza sulle donne è un problema sociale, soprattutto in Argentina dove la società è estremamente maschilista».
M.C.: Come si è avvicinata all’arte e poi alla tecnica del vetro?
S.L.: «Al mio Paese ho studiato disegno grafico e fino a 23 anni sono rimasta a Buenos Aires. Dipingevo, ma la cosa mi sembrava troppo borghese e poi là avevamo altre urgenze. In Italia ho riscoperto la passione per l’arte e poi, dopo aver assimilato la lezione di Louise Bourgeois sulle donne artiste, ho cambiato il modo di parlare del mio lavoro derivato dalla sofferenza, prima ero molto più riservata. Non sono mai stata una ammiratrice del vetro soffiato, ma nel 1987 vidi le opere di un artista svedese e ne rimasi colpita. Prima ritenevo gli oggetti di vetro come decorativi, prodotti di artigianato e non sculture. Poi, dopo una visita al Musée Atelier de Verre di Sars Poteries in Francia, uno straordinario museo del vetro d’arte, rimasi lì per una serie di workshop con ottimi maestri».
Levenson Silvia, Love, 2019, fusione del vetro a cera persa, 23x13x13 cm, Ed. 20
M.C.: Quale tecnica usa per i suoi lavori in vetro?
S.L.: «La cera persa, esattamente come si fa per le sculture in bronzo. Realizzo degli stampi e li riempio con il vetro che poi cuocio nel forno per la ceramica. Così posso fare tutto da sola, nel mio laboratorio. Ciò che mi affascina del vetro è la sua ambiguità: lo usiamo per isolarci, con porte e finestre, lo portiamo alla bocca con i bicchieri, nelle bottiglie mantiene la memoria dell’acqua e dell’uva, ma può farci del male».
M.C.: Nei suoi lavori ritorna spesso una bomba a mano fatta di vetro, a volte posata su un’innocua torta glassata.
S.L.: «È sempre un richiamo alla violenza subita dalle donne, costrette allo stereotipo della brava casalinga. Un’amica italiana subiva continue percosse dal compagno ma minimizzava, non voleva che all’esterno la si vedesse come vittima, e ciò è sbagliato. Occorre riconoscersi come vittime, questa è una guerra e la bomba a mano ne è il simbolo».
M.C.: Un altro suo filone artistico è quello delle bambine con la testa di animale.
S.L.: «In Argentina facevo collage con mia sorella, io mi raffiguravo con una testa di coniglio e lei di volpe. Così ho pensato alla serie della “Bambine strane”, sculture con il corpo di una bimba di 5 anni, con testa, mani e piedi di vetro. Le teste sono di animali come pecora, cervo o coniglio, e rappresentano l’età in cui ancora non sappiamo cosa è giusto e cosa no, una sorta di limbo nel quale magari siamo anche crudeli con gli animali».
M.C.: Lei ha anche affrontato il tema della moda, effimera per definizione.
S.L.: «La società ci divide in categorie, le persone fanno una scelta precisa nel vestirsi per appartenere a una di queste categorie, rispondendo ai condizionamenti sociali per essere accettate o per differenziarsi dalla massa. Ho creato un paio di scarpe di Cenerentola con un chiodino nel tallone che testimonia la fine del suo sogno di perfezione».
M.C.: Tornando all’infanzia, una sua opera famosa si intitola “È volata via” e raffigura un’altalena vuota con ai piedi un paio di scarpette, sempre di vetro.
S.L.: «Da piccola io e mia sorella Bibi salivamo in piedi sull’altalena togliendoci le scarpe. Ci sembrava di volare, però avevamo il timore di cadere e farci male. La mia opera simboleggia l’assenza del corpo e quindi della persona che usava quell’altalena e, riferita all’Argentina di quegli anni, rappresenta i molti bambini scomparsi. Cinque anni fa l’University Museum di Washington mi ha proposto un lavoro sul tema sociale, intitolato “Identità recuperata”, dedicato ai bambini i cui genitori erano stati uccisi dalla dittatura in Argentina. Questi bambini non avevano più identità perché adottati illegalmente, e finora 130 di loro l’hanno recuperata, così io per ogni bambino confeziono altrettanti vestitini di vetro e un’altalena, e la Fondazione “Alexander Tutsek – Stiftung” di Monaco ha acquistato l’installazione».

M.C.: In un mondo devastato dalla violenza e minacciato dagli sconvolgimenti climatici, qual è il ruolo dell’artista?
S.L.: «L’arte non può cambiare il mondo, ma lo sguardo delle persone sì. Occorre che l’artista faccia riflettere la gente e la spinga a non voltare la testa dall’altra parte».
M.C.: Cosa fa Silvia Levenson quando non lavora alle sue opere?
S.L.: «Amo viaggiare, il cinema e la lettura, tra i miei autori preferiti ci sono Julio Cortázar e Haruki Murakami».
M.C.: E il tango? Per un’argentina è quasi d’obbligo…
S.L.: «Da ragazza lo ballavo anche in famiglia, con gli zii e mio papà, e andavo a lezione. In Argentina c’è un po’ la mania della psicanalisi, così era normale che si sentissero donne dire frasi del tipo: “Il mio psicanalista mi ha consigliato il tango perché devo imparare a fidarmi di un uomo”. Nel tango, infatti, è l’uomo a guidare, anche se è la donna più in evidenza nelle fasi del ballo».
Mario Chiodetti