“Dove c’è molto spazio c’è molto tempo… infatti si dice che solo il popolo che ha tempo può aspettare. Noi no, noi europei non possiamo. Abbiamo poco tempo, come il nostro nobile continente, articolato con tanto garbo, ha poco spazio, noi dobbiamo ricorrere alla precisa amministrazione dell’uno e dell’altro, allo sfruttamento, caro ingegnere!
Prenda per simbolo le nostre grandi città, centri e fuochi della civiltà, crogioli del pensiero! Come il terreno vi rincara, e lo spreco di spazio diventa impossibile, nella stessa misura, noti, anche il tempo diviene sempre più prezioso. Carpe diem! Lo disse uno che viveva in una metropoli. Il tempo è un dono di Dio, dato all’uomo affinché ne usi… ne usi, ingegnere, al servizio dell’umano progresso!”
Thomas Mann, La montagna incantata
Cento anni fa, nel suo capolavoro La montagna incantata, Thomas Mann aveva centrato il problema che avrebbe attanagliato il secolo allora appena iniziato e – ancora di più – quello seguente, quello che stiamo vivendo ora: più l’umanità si evolve e più diventa impellente recuperare i due valori assoluti dello spazio e del tempo. Si può dire che per certi versi tutta l’arte contemporanea – e per contemporanea, si sa, si intende tutta l’arte a partire dalle avanguardie – vada alla ricerca di una soluzione a questo enigma. Già Claude Monet quando nel 1872 crea Impression, soleil levant, il dipinto che darà il nome (dapprima usato in senso dispregiativo) a tutto il movimento dell’Impressionismo, compie una rivoluzione concettuale: mandando all’aria secoli di paesaggio studiato e ripulito, decide che ora la pittura deve saper restituire l’emozione del momento, immobilizzare l’istante nel tempo eterno dell’arte. Pensiamo poi a Les demoiselles d’Avignon, opera nodale di Pablo Picasso che, di fatto, nel 1907 apre la strada al cubismo. Quello che il maestro spagnolo realizza su quella tela partendo dalla semplificazione di Cézanne è il moltiplicarsi dei punti di vista nello spalancarsi della forma, e dunque una nuova appropriazione dello spazio. E ancora pensiamo alle Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni, 1913, dove non è più l’istante a essere immobilizzato, ma il movimento stesso a scomporsi e moltiplicarsi fino a diventare onda fluida. E da lì, a cascata, ecco lo sfondamento della terza dimensione della tela operato da Lucio Fontana con il taglierino Stanley (e chiamato, non a caso, Concetto spaziale); i dripping di Jackson Pollock che ancora oggi, a settant’anni di distanza, ci consentono di seguire il movimento preciso compiuto nello spazio dalla mano dell’artista; gli abissi spaziotemporali spalancati dal concettualismo (uno su tutti il poeticissimo Libro dimenticato a memoria di Vincenzo Agnetti, con le pagine bucate e svuotate di materia); fino all’esperienza della Land Art con la conquista da parte dell’artista dello spazio di tutti: la Terra.

Tra recuperi della tradizione, vaghi ritorni all’ordine, transavanguardie e rigurgiti pop, gli artisti di oggi – quelli che hanno tra i trenta e i cinquant’anni e raccontano il qui e ora – si trovano a fare i conti con un momento storico travagliato. Un momento dove un’illusione di pace (tutto è pace se confrontato alle due guerre mondiali che hanno devastato le generazioni precedenti) stride con costanti scoppi di violenza, dove la povertà appare ancora più tragica accanto all’edonismo di un occidente viziato, e dove il pianeta lancia sempre più frequenti grida di aiuto. E ancora, su tutto, domina la sensazione di uno spazio vitale sempre più angusto e di un tempo – quello reale, da vivere, dei valori, della condivisione – sempre più inafferrabile.
Daniele Cestari accetta la sfida e la vince, realizzando una pittura in cui la tradizione, le avanguardie, il concettualismo, l’espressionismo astratto hanno trovato una sistemazione perfetta in un’armonia fatta di consapevolezza del fare e di esperienza. Nasce architetto, e questa sua impostazione logico-geometrica si respira in ognuna delle sue tele, filtrata però attraverso tutta una serie di emozioni gestuali e cromatiche che sembrano affondare le loro radici più nella grande pittura – dall’Ottocento a Franz Kline – che nel Bauhaus. Il suo essere architetto torna anche nei soggetti: vedute urbane i cui personaggi principali sono edifici imponenti che si aprono come quinte su prospettive infinite. Spettacolari visioni nelle quali le architetture appaiono enormi (spesso non è possibile coglierne con lo sguardo l’estremità superiore) e dove il punto di vista estremamente ribassato crea l’illusione di una pavimentazione incombente sullo spettatore, di un equilibrio pericolante pronto a ingoiarlo. Questi edifici, però, non sono narrazione, anche se sempre accuratamente scelti dall’artista nelle città che visita (da Milano ad Arles, a New York): sono piuttosto il pretesto per una ricognizione sulla forma e sullo spazio. L’architettura è dunque per Cestari più di tutto una sequenza di pieni e di vuoti, di montanti verticali e di orizzontali fughe di finestre, di archi e modanature posti a scandire lo spazio. Esattamente come le strisce pedonali che solcano la strada, spesso posizionate in una prospettiva leggermente sfalsata per rendere improvvisamente dinamico tutto l’insieme. E poi ancora strisce vanno a spezzare lo spazio, in primo piano, non solo interrompendo con uno squillo a contrasto la sinfonia pacata della cromia – tutta giocata sui neri e sui grigi o magari sui bruni e sugli ocra – ma scardinando proprio la lettura visiva della prospettiva, col risultato di trasformare quello che un attimo prima era una strada metropolitana in uno spazio altro. E ancora colpi incongruenti di pennello a ripensare il peso di una sezione del dipinto, macchie di materia all’orizzonte che non sono del tutto cielo ma che non sono nemmeno soltanto colore, e poi graffi, ripensamenti, colature, grumi di colore inspessito dalla polvere di marmo. Mentre lo sguardo vaga inquieto da un punto all’altro, dunque, lo spazio del quadro continua a cambiare il proprio senso. Lo spazio, insomma, si spalanca in un altrove, si apre in punti inaspettati, offre improvvise vie di fuga e poi, di colpo, ci blocca con un muro contro cui, se non stiamo attenti, finiremo per schiantarci. Un procedimento che appare intriso d’istinto, ma che nasce da una progettualità minuziosa (esattamente come molto più pensati di quanto non si creda sono i dripping di Jackson Pollock, sotto i quali si nasconde la germinazione matematica dei frattali).

Quando negli anni Sessanta Gerhard Richter comincia a realizzare i primi fotobilder, parte da una ricerca che con quella di Cestari ha diversi punti in comune. Ha studiato all’Accademia di Dresda, è così bravo da avere davanti a sé una carriera sicura tra le confortevoli braccia dello stato (la Germania dell’Est) come pittore del realismo socialista, ma nel 1959 un viaggio a Kassel, per Documenta, gli mostra l’arte da un altro punto di vista. Vede i lavori di Pollock, Fautrier e Fontana: vede la libertà. Nel 1961 chiede asilo politico a Berlino Ovest. E cambia vita. Da quel momento in poi la sua incredibile abilità pittorica sarà messa al servizio dello smascheramento, del disvelamento. E tutto il suo studio sulla fotografia, il suo gioco intorno all’esattezza dell’immagine per poi negarla e rinnegarla (i fotobilder, appunto, in cui la precisione iperrealista viene sporcata a pittura ancora fresca con il passaggio del pennello asciutto, ottenendo l’incantevole effetto del fuori fuoco fotografico), sarà il campo per un’indagine sulla dialettica tra oggettività e soggettività. Anche Richter cerca di fermare l’istante, inventandosi delle “fotografie pittoriche” per poi negarle col fuori fuoco – e dunque protrarne l’“esposizione” nel tempo. Anche Richter gioca di sponda costantemente, per tutta la vita, tra figurazione e astrazione, tra l’immagine fotografica (“La fotografia è l’immagine perfetta: non cambia, è assoluta e autonoma, incondizionata, senza stile”, dirà) e la sua scomposizione formale e cromatica che troverà il suo punto più sublime nei vorticanti astratti rutilanti di colore. E anche Richter ama le vedute urbane, le fughe prospettiche, il fascino dei luoghi colonizzati dall’uomo e da lui trasformati (uno dei suoi record d’asta è una veduta di Milano tutta giocata sui toni del grigio, dove il Duomo galleggia in una nebbia materica). Cestari però appartiene alla giovane generazione di oggi. E va oltre. Come molti suoi colleghi del nuovo millennio, ama ripensare i materiali, dare nuova vita agli oggetti del passato e farli propri, inglobandoli nel proprio lavoro. Il concetto dell’objet trouvé (elevato ad arte da Marcel Duchamp) nelle ultime generazioni di artisti non consiste tanto nel decontestualizzare un oggetto, ma in una ricerca di reperti dal passato, nella raccolta di materiali che hanno una storia con la consapevolezza che l’arte li farà rivivere ma che, soprattutto, loro porteranno un pezzo della loro storia nell’opera.

È proprio questo che Cestari fa con la carta che raccoglie nei mercatini: vecchie cartoline, registri, appunti, spartiti, conti, frontespizi di vecchi libri, atti amministrativi, documenti vergati in una calligrafia ordinata e obliqua, storie passate di cui non conosciamo le trame ma di cui l’artista ci consente di afferrare un bandolo. Qui, in questo gesto, si gioca nella maniera forse più esplicita la capacità che ha Cestari di fermare il tempo e di prolungarlo in un istante eterno: in questo suo bisogno di accumulare frammenti del passato. Quelli che fanno da supporto in particolare – ma non esclusivamente – alla sua serie delle montagne. E anche questa scelta non è casuale, perché se la metropoli ha un suo tempo stabilito, l’eternità della montagna la pone in un nulla temporale che è tempo fermo e assoluto. Come le vedute urbane, anche questi paesaggi montani sono solcati da segni, spezzati da graffi e colature. La lettura si frammenta e si arricchisce tra rivoli di materia che non sono strade, ma forse lo sono, e tra chiazze di azzurro che non sono laghi, ma forse sì. E ancora l’occhio fugge alla ricerca del senso di quella scrittura minuta e regolare, solo a tratti decifrabile, proveniente da un tempo lontano e per questo capace di precipitarci in un altrove. E l’insieme stesso dell’opera ci spiazza nel suo essere senza tempo. E come le vedute non sono mai del tutto vere metropoli, ma piuttosto l’archetipo di una città contemporanea, le montagne sono l’idea di montagna, pensiero collettivo universale sul concetto di montagna. A volte interamente dipinte, a volte in parte trasferite da scatti fotografici presi dall’artista e poi stampati su acetato che vanno ad accumularsi pezzo dopo pezzo in quel mare iconografico che ci invita a perderci e a lasciarci andare, staccando la spina della razionalità e abbandonandoci alle libere associazioni, alle emozioni.
Una sensazione che si fa ancora più potente nei collage, dove la materia si solleva, offre il dettaglio dello strappo, il segno del gesto. Nella scompaginazione dello spazio, il tempo si fa stratificazione di istanti. E il miracolo si ripete.
Presso PUNTO SULL’ARTE, Varese
Alessandra Redaelli